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La via del globulo polare

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Primo piano

10 Marzo 08Medicina e biotech | DIAGNOSI GENETICA

La via del globulo polare

Una nuova metodica che indaga l'ovocita e non l'embrione sembra poter aggirare i divieti della legge 40. Ma si applica a un numero limitato di malattie e con risultati che non convincono l'intera comunità scientifica 

di Monica Soldano

 A Roma, l’equipe del centro Genoma di Francesco Fiorentino propone una nuova metodica con cui eseguire la diagnosi genetica sull’ovocita, la cosiddetta diagnosi di pre-concepimento, che ha permesso a una donna del Lazio, già al terzo mese di gravidanza, di scongiurare la trasmissione al feto della sindrome di Charcot Marie Tooth, una grave malattia del sistema nervoso periferico.

La nuova applicazione, descritta nella rivista scientifica Prenatal Diagnosis (n° 28/2008 p 62), è il proseguimento di alcuni studi, relativi alla diagnosi genetica sull’ovocita risalenti agli anni Novanta, quando contemporaneamente e con una maggiore efficienza, si predilesse sviluppare la diagnosi genetica sull’embrione. Quest’ultima, infatti, è la metodica più diffusa e legalizzata in numerosi stati del mondo e in Europa, pur con alcune cautele biomediche e bioetiche (come l’aggiornamento periodico della lista delle malattie genetiche a cui applicarla); mentre la diagnosi sull’ovocita è da sempre stata considerata una strada impervia e poco efficiente.

Tuttavia, in Italia, i vincoli legislativi della legge 40, relativi al numero massimo di embrioni da trasferire (tre) e, dunque, da produrre, nonché l’obbligo a trasferirli tutti, sani o malati,  ha modificato la prospettiva, rendendo la diagnosi genetica sull’embrione, laddove ammessa, inutilizzabile.

Il centro Genoma è partito da qui. Investendo in questa ricerca, ha realizzato un protocollo di diagnosi genetica dell’ovocita, mediante l’analisi del primo globulo polare (la struttura che si forma su un polo della cellula uovo adulta e che contiene 23 cromosomi materni), osservando, questa volta, tempi strettissimi (al massimo 4 ore). Dopo la diagnosi genetica, segue la tecnica di fecondazione, con iniezione dello spermatozoo nel citoplasma dell’ovocita (ICSI) selezionato e  privo del gene malato. “Per fare ciò”, ha dichiarato Francesco Fiorentino, “è fondamentale uno stretto coordinamento tra il gruppo del laboratorio di fecondazione assistita e quello del laboratorio di genetica. Se il primo globulo polare dell’ovocita presenta la mutazione  indagata, indicherà che quella non sarà presente nell’ovocita e che basterà rimuovere il globulo polare, senza incidere sulla cellula madre”.

Nel globulo polare, tuttavia, si trovano solo una parte delle informazioni genetiche, quelle della madre, ed è questa la prima obiezione. A cui, il direttore di Genoma, ribatte che, anche qualora lo spermatozoo fosse portatore sano della malattia, si eliminerebbe la quota trasmissibile attraverso i geni materni,  e dunque si eviterebbe comunque il rischio della formazione di un embrione malato e, nel peggiore dei casi, si avrebbe un embrione portatore sano di quella mutazione. Tra le malattie incluse, la fibrosi cistica e la betatalassemia (monogeniche a trasmissione autosomica recessiva),  o le malattie a trasmissione autosomica dominante di origine femminile. Restano escluse da questa indagine le traslocazioni cromosomiche bilanciate, molto diffuse, la Corea di Huntington e le autosomiche dominanti paterne.

Fiorentino ritiene, con una valutazione retrospettiva, che se questa tecnica fosse stata disponibile, si sarebbe potuta applicare con successo, negli ultimi 10 anni, al 95, 8 per cento dei casi. Dato che però non convince Paolo Gasparini, ordinario di genetica all’Università di Trieste e già ricercatore del consorzio Telethon: “L’epidemiologia delle malattie genetiche è uno studio complesso, che si basa su diversi parametri: l’incidenza delle malattie sulla popolazione di uno specifico territorio e la loro frequenza. Se fossimo di fronte ai numeri di cui parla Fiorentino, sarebbe un dato rivoluzionario, ma non è così”.

L’altra questione da valutare sono i limiti imposti dalla legge 40. Questa tecnica potrebbe dare risultati soprattutto con coppie portatrici di malattie genetiche, ma fertili. Oggi la legge 40, permette l’accesso solo alle coppie infertili, pur malate. Inoltre, per le donne, che per motivi patologici o di età, producessero pochi ovociti, potrebbe non essere applicabile. Cosa ha dunque motivato la ricerca? Fiorentino dichiara di voler offrire un’alternativa costruttiva alle coppie costrette oggi al turismo procreativo per la diagnosi genetica sull’embrione. “La scelta di strade alternative, impervie, nella ricerca scientifica”, commenta Gasparini, “a volte può essere preferita a una strada in discesa, ma va combattuta con determinazione la logica, da cui un progetto di ricerca, scientificamente orientato, non dovrebbe mai partire, ossia quella di  essere orientata a monte, dai limiti imposti dalla politica”.


Fonte: Galileo