Per la prima volta al mondo sono stati trasferiti all’interno dell’utero materno embrioni parzialmente malati e si è dimostrato che possono dare origine a gravidanze normali e a bambini sani.
La scoperta è stata annunciata il 20 novembre sul New England Journal of Medicine ed è opera del lavoro svolto da ricercatori italiani guidati dal professor Ermanno Greco, autore dello studio e direttore del Centro di medicina e biologia della riproduzione, European Hospital di Roma.
Nello studio pilota che ha verificato questa sensazionale scoperta sono stati analizzate oltre 3.800 blastocisti (l’insieme di cellule che si formano entro le prime due settimane dalla fecondazione), delle quali il cinque per cento circa sono risultate a mosaico, cioè con cellule malate e cellule sane. Si è quindi spiegato alle coppie che anche queste hanno la possibilità di svilupparsi in quanto, essendo a mosaico, hanno anche delle linee cellulari normali.
“Da parte delle coppie c’è stata una buona accettazione di questo tipo di procedura, che spesso rappresenta per loro l’unica possibilità di embrioni trasferibili” spiega Marina Baldi, genetista del laboratorio Genoma di Roma, che si è occupata del counselling genetico ai pazienti.
Sono stati così effettuati diciotto impianti e da questi sono nati sei bambini sani, cinque femmine e un maschio.
Una scoperta che aumenta le probabilità d concepimento.
Dunque embrioni parzialmente malati, che in precedenza si ritenevano corresponsabili di mancati impianti o aborti spontanei, possono dare origine a bambini sani, “perché esiste in natura un meccanismo di autocorrezione” spiega il professor Ermanno Greco.
“Potendo utilizzare anche questi embrioni ‘anormali’, possiamo aumentare di fatto le percentuali cumulative di successo della fecondazione in vitro, oltre che renderla più sicura per le donne” aggiunge.
Gli embrioni utilizzati dai ricercatori italiani sono detti aneuploidi a mosaico: “le aneuploidie sono anomalie, alterazioni del numero di cromosomi. La loro presenza in genere dà origine all’aborto o al mancato impianto” spiega Marina Baldi. “Se la diagnosi preimpianto evidenzia una situazione di aneuploidia a mosaico, significa che sono state trovate sia cellule malate sia sane. Oggi sappiamo che tale coesistenza può suggerire che l’embrione si stia ‘riparando’ e che le cellule malate verranno confinate nella regione dell’embrione che darà origine ai cosiddetti annessi fetali come la placenta”.
Greco specifica che “questa anomalia può essere collegata con l’età materna avanzata e può essere più frequenti nelle donne che hanno avuto episodi ripetuti di aborto”. E sottolinea come la scoperta abbia un duplice significato clinico. Innanzitutto embrioni parzialmente malati sono in grado di autocorreggersi e una volta impiantati le cellule sane prendono il sopravvento su quelle malate. E poi, tra le varie possibili conseguenze in ambito della fecondazione assistita, c’è la diminuzione della stimolazione ovarica della donna, perché si può contare anche sulla possibilità di successo di embrioni ‘a mosaico’.
Il risvolto etico della scoperta
“Embrioni che presentano delle aneuploidie cromosomiche a mosaico verranno considerati utili per il trasferimento in utero e non verranno più lasciati congelati o, come avviene in altri Paesi, o eliminati. Noi abbiamo dato la possibilità a questi embrioni di impiantarsi e trovare un loro destino e lo abbiamo proposto alle coppie che si sono trovate in questa situazione” commenta il dottor Francesco Fiorentino, coautore dello studio, Biologo molecolare, Direttore dei laboratori ‘Genoma’ di Roma e Milano. Questi risultati sottolineano l’importanza dell’indagine genetica preimpianto, per verificare la qualità genetica dell’embrione prima di trasferirlo in utero, per non escludere embrioni all’apparenza non idonei, e per una maggiore sicurezza della donna e del nascituro.
Una nuova tecnica per la procreazione assistita
Possono giovarsi di queste nuove metodiche di procreazione assistita integrate con la diagnosi preimpianto donne infertili che hanno avuto difficoltà a rimanere incinte o a portare avanti una gravidanza e che hanno già affrontato vari fallimenti nel concepimento sia per via naturale che assistite, e anche donne con età materna considerata ‘avanzata’ (superiore ai 35 anni).
“Un tempo la scelta si basava sull’aspetto morfologico e sul numero di cellule, tuttavia oggi sappiamo che sono gli embrioni sani, cioè con il corretto patrimonio genetico, e non quelli ‘belli’, che poi si impiantano” precisa Greco. “Con questa tecnica, chiamata preimplantation genetic screening (PGS), possiamo verificare l’intero assetto genetico e non solo di alcuni cromosomi come in passato, e senza alcun rischio per il futuro feto. La vecchia concezione della fecondazione in vitro risulta così oramai superata: non dà una sicurezza ragionevole della gravidanza, non protegge la donna da eventuali patologie cromosomiche degli embrioni (aborti nel primo trimestre o interruzioni terapeutiche per patologie tipo la trisomia del cromosoma 21), e la espone a gravidanze multiple”. Insomma, lo screening genetico prima dell’impianto assicura maggiori garanzie.
La PGS risulta quindi significativamente più efficace e sicura. “Come emerge dai dati che recentemente abbiamo consegnato all’Istituto Superiore di Sanità, aumenta molto la percentuale di successo. Considerando tutte le donne di tutte le età che afferivano a un centro di fecondazione in vitro con età media di 38 anni, se prima la percentuale di successo si aggirava intorno al 35-38%, grazie a questa tecnica è salita al 55%. È un valore che comprende sia donne che facevano la diagnosi preimpianto sia quelle che non la facevano. A parità di numero di transfer effettuati, il numero di bambini nati è superiore”.
La nuova tecnica permette la certezza di trasferire in utero un embrione che non ha le caratteristiche anomalie cromosomiche che possono verificarsi a causa dell’età della paziente. Inoltre è più sicura per la donna perché permette di evitare le gravidanze gemellari, visto che si trasferisce un solo embrione. “In sostanza la diagnosi preimpianto può essere equiparata a una diagnosi prenatale molto precoce senza gli effetti negativi: non presenta nessun rischio per l’embrione e non costringe la coppia a scelte difficili come un eventuale aborto terapeutico, a differenza di indagini invasive a gravidanza iniziata”, aggiunge Fiorentino.
“Per fare la diagnosi preimpianto non è necessario rivolgersi all’estero” ricorda Greco “perché anche in Italia esistono centri attrezzati, anche se ancora sono pochi. Nel solo centro dell’Europen Hospital, ad esempio, dal 2013 al 2014 abbiamo analizzato circa quattromila embrioni e il 60% delle donne che hanno fatto la fecondazione in vitro da noi ha scelto la diagnosi preimpianto”.